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Intervista agli Aabu

Gli aabu scelgono la trasformazione: “Stammi vicino” è un gesto di rottura con il passato. La loro estetica si apre a contaminazioni elettroniche, beat sintetici, arrangiamenti complessi, ma resta fedele al cuore della forma-canzone. È la tensione tra tradizione e sperimentazione a definire l’identità del lavoro. Un album che si colloca in una terra di mezzo, tra ricerca e accessibilità, e che proprio in questa posizione trova la sua forza.

Come descrivereste “Stammi Vicino” a qualcuno che non vi ha mai ascoltato prima?

“Stammi Vicino” è un disco di passaggio e rinascita. È il momento in cui abbiamo deciso di spogliarci di tutto ciò che era familiare — i suoni distorti, le strutture più immediate — per esplorare territori nuovi, più complessi e stratificati. È un viaggio dentro la fragilità e il bisogno umano di contatto, raccontato attraverso una scrittura che fonde elettronica e strumenti acustici. Se dovessimo definirlo con una parola, diremmo che è un disco “vivo”: imperfetto, umano, necessario.

Guardando il disco nel suo insieme, quale pensate sia il filo conduttore emotivo che lega tutti i brani?

Il filo conduttore è la vicinanza come forma di resistenza. In un mondo dominato dall’individualismo e dall’isolamento, Stammi Vicino racconta il bisogno di riconnettersi, di mostrarsi per ciò che si è davvero, senza sovrastrutture. Ogni brano indaga un diverso modo di cercare o di perdere il contatto con l’altro — che sia amore, fratellanza, o semplice empatia — ma tutti convergono verso l’idea che la condivisione del dolore e della fragilità sia l’unico modo per restare umani.

Cosa vi aspettate che il pubblico percepisca ascoltando “Stammi Vicino” dall’inizio alla fine?

Vorremmo che chi ascolta sentisse questo disco come un percorso, più che come una raccolta di canzoni. Un viaggio emotivo che parte dal bisogno di chiedere aiuto e si chiude con la consapevolezza di dover affrontare le proprie paure. Ci piacerebbe che il pubblico percepisse la sincerità con cui ci siamo messi a nudo, riconoscendosi magari in quella stessa fragilità. Non vogliamo dare risposte, ma creare uno spazio in cui si possa respirare e riflettere insieme.

“Stammi Vicino” apre il disco come un manifesto. Qual è la sua genesi?

“Stammi Vicino” è nato da un momento di grande solitudine. È un grido d’aiuto, ma anche un gesto di fiducia: la consapevolezza che per sopravvivere alla propria catastrofe interiore bisogna lasciarsi avvicinare. Musicalmente è stato il primo brano in cui abbiamo sperimentato la fusione fra elettronica e strumenti acustici, ed è diventato subito il punto di partenza del nuovo corso sonoro. È, a tutti gli effetti, la chiave di lettura dell’intero album.

 “In una tempesta” ha un’atmosfera drammatica e cinematografica: che immagine avevate in mente quando l’avete scritta?

Avevamo in mente un naufragio emotivo: due persone che cercano di restare a galla mentre tutto intorno affonda. L’immagine è quella di una barca in balia del mare, simbolo di una relazione tossica dove la paura e il desiderio si confondono. Abbiamo cercato di tradurre quella tensione in musica, con arrangiamenti che alternano quiete e caos, fragilità e potenza, come in una tempesta che non concede tregua.

“La mia casa” sembra una dichiarazione d’amore alla musica. Quanto è autobiografica questa canzone?

Totalmente. “La mia casa” parla della musica come rifugio, ma anche come spazio che ti espone. È un amore che ti salva e ti consuma allo stesso tempo. Per noi è il luogo in cui ci sentiamo protetti, ma anche quello in cui emergono tutte le nostre fragilità. È autobiografica perché ognuno di noi ha vissuto la musica come un legame viscerale, qualcosa che non puoi controllare ma da cui non puoi stare lontano.

In “Cristallo” emerge l’idea della fragilità come condizione ambivalente. Qual è il vostro rapporto personale con questo concetto?

Crediamo che la fragilità non sia una debolezza, ma una forma di verità. “Cristallo” nasce da questa consapevolezza: la trasparenza può ferire, ma è anche ciò che ci permette di essere autentici. Tutti noi viviamo quel conflitto fra il desiderio di proteggerci e la necessità di lasciarci toccare. È una condizione difficile, ma è anche il punto in cui nasce la connessione più profonda con gli altri.

Perché avete scelto di chiudere l’album con “Ho paura di me”?

“Ho paura di me” è la conclusione naturale del viaggio. È il momento in cui tutto si ferma e ci si guarda allo specchio, senza filtri. Rappresenta lo smarrimento e la consapevolezza di dover convivere con le proprie ombre. Musicalmente è il brano più libero, più aperto, quasi un flusso di coscienza. Chiude l’album lasciando una domanda sospesa, più che una risposta: perché solo attraversando la paura possiamo davvero cambiare.

Alcune canzoni sembrano nate per essere condivise dal vivo, altre sono molto intime. Come pensate di portare questa dualità sul palco?

Sul palco vogliamo ricreare la stessa tensione che attraversa il disco: momenti di intimità assoluta alternati a esplosioni collettive. Ci piace l’idea che il concerto diventi un rito di condivisione, dove la dimensione elettronica e quella acustica si intrecciano, così come le emozioni del pubblico e le nostre. Ogni brano prenderà vita in modo diverso, ma l’obiettivo resta lo stesso: far sentire a chi ascolta che siamo lì, insieme, presenti.

Qual è stata la reazione più significativa ricevuta da chi ha già ascoltato l’album?

Molti ci hanno detto che ascoltando “Stammi Vicino” si sono sentiti “capiti”. È il complimento più bello che potessimo ricevere. Sapere che qualcosa di così personale può diventare condiviso, e persino aiutare chi ascolta, è la conferma che questo lungo percorso — durato sette anni — aveva davvero un senso.

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