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And Also The Trees allo Studio Miriam di Roma

Testo Fabio Babini
Foto Sara Serra

Roma non è nuova agli incantesimi, ma ieri sera lo Studio Miriam ha ospitato qualcosa che va oltre l’ordinario: una di quelle esperienze sonore che sembrano accadere fuori dal tempo, tra sogno e materia, sotto il segno inconfondibile degli And Also The Trees. La storica formazione inglese, ormai da oltre quarant’anni custode di un’estetica sonora colta, barocca e insieme terrena, ha conquistato la platea accorsa discretamente numerosa in questa piacevole e suggestiva venue, nuova e già promessa del panorama live romano. Uno spazio inconsueto, ibrido, capace di far vibrare ogni corda — del palco e dell’anima — con un’acustica sorprendentemente nitida e viva.

Ad aprire le danze, i Second Nature: formazione dall’attitudine decisa e dallo stile compatto, capace di scaldare l’atmosfera con una scaletta densa, ben costruita e condotta con una sicurezza che non tradiva la responsabilità del ruolo. La loro performance è stata un’introduzione ideale, quasi una soglia d’accesso, al mondo più rarefatto e crepuscolare che sarebbe seguito di lì a poco.

Poi, luci basse. Silenzio teso. Un’ombra lunga si staglia sul palco. Quando Simon Huw Jones appare, è come se il tempo si sospendesse: figura elegante, sguardo magnetico, voce che fluttua tra velluto e roccia. L’esordio è calibrato, quasi sussurrato. Ma basta un attimo per ritrovarsi dentro un romanzo gotico, un racconto di fantasmi narrato da un attore consumato che non ha mai smesso di credere nel potere della parola e del gesto.

Jones, istrione consapevole, non canta: evoca. Il suo registro vocale rimane intatto, sorprendentemente duttile. Sa essere intimo e minaccioso, narrativo e seducente, con una teatralità mai eccessiva ma sempre necessaria, che rende ogni brano una piccola pièce. C’è qualcosa di letterario nella sua presenza, una carica lirica che richiama la grande poesia inglese ma anche certa sensualità decadente, filtrata da un’ironia appena accennata. Ogni movimento, ogni inflessione, ogni pausa parlano di un mestiere scolpito nella memoria e mai logorato.

La scaletta si snoda tra momenti di grande intensità emotiva e aperture più ariose, in un equilibrio che sa dosare nostalgia e attualità. I classici, accolti da applausi entusiasti — ‘The Suffering of the Stream’, ‘Virus Meadow’, ‘There Were No Bounds’ — si alternano a brani tratti dai lavori più recenti, dal il fascinoso ‘The Bone Carver’ del 2022, album di grande coerenza stilistica e sorprendente freschezza, e l’ultimo, evocativo ‘Mother-Of-Pearl Moon’ dell’anno scorso, da cui emergono tracce come ‘Valdrada’ e ‘Visions of a Stray’, rese con una profondità quasi cinematografica. L’insieme vibra di una coesione rara, frutto di un’identità che si è nutrita di trasformazioni senza mai perdersi.

In questo viaggio sonoro, la chitarra di Justin Jones è la vera guida spirituale. Non accompagna, bensì costruisce paesaggi, pondera tessiture armoniche, al tempo stesso eleganti e inquietanti, che rifiutano i cliché del darkwave più scolastico per proporre un universo espressivo che sa essere fragile e potente, etereo e concreto. Nessuna nota è lasciata al caso: ogni arpeggio è un sentiero, ogni distorsione un vento che passa tra gli alberi così come tra le luci sul palco. Il suo suono, fin dagli esordi, è ciò che ha distinto la band da ogni altra incarnazione del post-punk britannico, rendendola oggetto di culto trasversale.

Ma non sarebbe un vero concerto senza l’imprevisto: a metà dell’esibizione, un blackout improvviso sospende la magia per una decina di minuti. Le luci si spengono, gli strumenti tacciono, il pubblico si guarda — sorpreso ma non disorientato. Anzi, nella pausa forzata si percepisce quasi un senso di complicità collettiva, una sospensione tra due respiri. Poi, come se nulla fosse, si riparte. Il flusso riprende il suo corso, forse con ancora più intensità. Un cortocircuito diventato epifania.

Il ritorno in scena è segnato da un clima nuovo, più viscerale. La seconda parte del concerto scorre con una naturalezza fluida, sempre in bilico tra incanto e turbamento. Sipario e poi l’encore d’annata, con due classici davvero senza tempo quali ‘A Room Lives in Lucy’ e ‘Slow Pulse Boy’, con l’applauso finale lungo, autentico, vibrante. Nessuno ha davvero voglia di andar via.

Quella dello Studio Miriam non è stata una semplice esibizione, ma un’esperienza immersiva, un rito laico dove parola, suono e presenza scenica si sono intrecciati in una danza densa di simboli e suggestioni. Gli And Also The Trees, ancora una volta, hanno dimostrato di non essere una semplice band, ma una forma di narrazione vivente. E Roma, per una notte, è sembrata meno rumorosa, più profonda. Come sospesa sotto una luna di madreperla.

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