Marco De Annuntiis: per Pasolini e per la beat generation Alessio Primio Gen 15, 2020 INTERVISTE Inizia a diventare impossibile riassumere il lavoro di Marco De Annuntiis dietro le righe di un semplice articolo. Ora che ha anche varcato il tempio del cinema con la scrittura del film documentario su Claudio Caligari presentato anche allo scorso Festival del Cinema di Venezia. Sperando solo che queste poche domande a seguire ne abbiano restituito una fotografia utile. “Jukebox all’Idroscalo” è la sintesi estrema, violenta, psichedelica di quanto mondo ci sia dietro. Un vinile, un disco, una sequela di file digitali. Da una parte Pierpaolo Pasolini, dall’altra Allen Ginsberg. Da una parte l’Italia degli anni ’60 e ’70, dall’altra l’America perversa della libertà anti-sistema. E a tutto questo De Annuntiis risponde con la sua voce esteticamente nobile ma proletaria nel cuore, con la sua musica che rema contro ogni corrente e con la sua irriverenza – manco a dirlo – anti-sistema. Ci prova a ribaltare le apparenze e le abitudini. Ci ha provato anche con quest’ultimo anti singolo, “Sotto lo stesso cielo”, una non canzone, una lunga poesia che vi restituiamo dal video ufficiale che troviamo in rete. Marco De Annuntiis non va in alcun modo etichettato… non è un artista pop. È un artista. Semplicemente questo. Dunque via i pregiudizi e le etichette conosciute. Per una volta dedichiamo il nostro tempo ad abbandonarci alle evidenze… Noi parliamo spesso di Rock. Lo intendiamo molto come un modo spirituale di vivere la musica più che come genere e come suono. In questo senso allora: quanto “rock” c’è in questo nuovo disco? Liricamente soprattutto: sono testi individualisti, a volte oltraggiosi, spesso oltraggiosi proprio perché individualisti. Musicalmente… è un disco suonato tutto dal vivo, e in questo senso forse c’è anche qualcosa di incompiuto, che non si esaurisce nel disco ma rimanda all’incontro in concerto. Ma il problema del rock come genere non mi ha mai appassionato. La morte del rock è come la morte delle ideologie: ne sento parlare da quando sono nato, eppure vedo ancora un gran bisogno di entrambi. Anche se il rock classico è ormai un ghetto culturale: ed è giusto che sia così, i talebani della retorica dell’assolo di chitarra elettrica si ghettizzano da soli. Il vinile. “Jukebox all’Idroscalo” è anche in vinile… cosa significa per te questo supporto? Per l’esattezza è SOLO in vinile. Non esiste un CD fisico, ed è presente su alcune piattaforme digitali ma non su tutte. Il disco in vinile è un oggetto prezioso, che risponde al bisogno di autenticità e rimanda a un rituale casalingo, a un ascolto non necessariamente solitario ma consapevole, non casuale. È l’equivalente discografico della sacralità del cinema: oggi vedo vecchi registi che implorano i ragazzini “vi prego, non guardate i film sul cellulare”… boh, io sul cellulare non riesco a guardare nemmeno i porno. Che poi il vinile è stato pubblicato dalla Cinedelic e non è un caso… sono forti i tuoi legami per il cinema d’autore… In realtà nasce per caso, la Cinedelic la conoscevo solo da fan, da collezionista. L’accordo con l’etichetta la trovò il produttore Luigi Piergiovanni. Il fatto che molte mie canzoni avessero più o meno esplicitamente un film alle spalle e che le sonorità fossero vicine al beat-lounge degli anni ’60 lo ha resa una coincidenza quantomeno sensata. La beat Generation: hai la nostalgia di un tempo o vivi a pieno il “raccolto” di quello che hanno seminato? La beat generation è un fenomeno al limite, è sempre stata trattata come la letteratura dei rockettari o come il rock’n’roll dei professori. Forse sarebbe ora di cominciare a considerarla diversamente, in maniera più laica. È ovvio che sia un genere che mi ha ispirato, ma non è l’unico. Peraltro oggi si fa confusione, vengono assimilati alla beat generation fenomeni che non c’entrano nulla come il movimento hippy; trovo molte più connessioni con Pasolini, che gli ignoranti ancora fanno passare per un neorealista, o con Boris Vian che veniva addirittura dal surrealismo. Perché un legame artistico con Caligari? Innanzitutto perché sono cresciuto a Ostia, con stretti rapporti di amicizia con i “reduci” di “Amore tossico”. Poi realizzare con Simone Isola e Fausto Trombetta il film “Se c’è un aldilà sono fottuto” mi ha dato modo di conoscerlo più intimamente. Caligari è uno che ha fatto solo tre film, uno ogni quindici anni, non per pigrizia ma perché per la maggior parte della sua vita gli è stato impedito di lavorare. È una vicenda esemplare… in senso negativo ovviamente, perché è la fotografia di un’industria culturale che troppo spesso per non rischiare lascia indietro i migliori; ma è esemplare anche in senso positivo, perché è la storia di un uomo che fino all’ultimo dei suoi giorni ha proseguito imperterrito per la sua strada, talmente convinto della validità delle proprie idee da non lasciarsi condizionare dalla mancanza di riscontri: credo che dovrebbe essere di esempio e di ispirazione per tutti noi. E perché un brano così lungo per Pasolini? “Sotto lo stesso cielo” nasce coma una poesia, poi ho iniziato a performarla dal vivo ed è cresciuta sera dopo sera. Si fa un gran parlare di rapporto fra poesia e canzone, siccome scrivo entrambe le cose so cosa hanno in comune e quali sono le differenze. Mi sono reso conto che avevo qualcosa da dire e volevo farlo senza limiti, senza mediare con le formule del pop; il che comunque non significa che una struttura non ci sia. Del resto per gli standard di oggi qualunque canzone sopra i due minuti e mezzo è considerata “troppo lunga” dai produttori e dalle radio, quindi ho pensato “chi se ne frega, chi vuole ascoltare ascolterà”. Anche il video che la accompagna (girato da Lorena Strummer) non è un vero videoclip ma più un cortometraggio, una sorta di documentario che arricchisce di senso l’operazione. Comments comments