Era il lontano 2007. Due lustri sono passati da allora. All’epoca, ovunque (radio, tv, jingle pubblicitari,…) risuonava un unico brano. E anche se starete alzando gli occhi al cielo rinnegandolo a voi stessi, sono certa che almeno, anche per una volta soltanto avete canticchiato Monsoon, magari per sbaglio e sovrappensiero, ma era un brano che era impossibile non ascoltare. In realtà il brano originale era in tedesco, dal titolo non propriamente melodioso Durch Den Monsun, e risalente al 2005. Quando però l’Universal propose alla boy band di fare un album in versione inglese per partire alla conquista dell’Europa, in Italia fu subito amore.

Ed è così che oggi i Tokio Hotel ritornano, nella loro formazione originale, che in fondo non  è mai cambiata, per due date in una nazione che era letteralmente ossessionata da loro: quattro ragazzi, appena maggiorenni, trucco pesante sugli occhi, capelli discutibilmente alla moda (dell’epoca), catene, tatuaggi e larghi vestiti. Prima data il 28 Marzo a Milano, e ieri in un’incerta serata primaverile all’Atlantico Live di Roma. Ritroviamo così sul palco Bill e Tom Kaulitz (i gemelli che danno voce e chitarra/tastiera alla band), Georg Listing (basso/tastiera) e Gustav Schafer (batteria)

Se nella vostra mente i Tokio Hotel erano degli emo schivi e intimiditi (in fondo erano poco più che maggiorenni) dimenticatevi di tutto: dei vestiti neri, dell’atmosfera dark e del troppo ombretto sugli occhi non ne è rimasta traccia. Perché The Dream Machine Tour ci ha portato indietro nel tempo, alla disco music degli anni ’80, con melodie sicuramente più moderne a suon di synth e campionatori, ma con tanti lustrini e pailletts e canzoni in falsetto. Capelli corti e ben sistemati e viso pulito. Voce sempre limpida. Volume un po’ troppo tirato e ugole delle giovani fans pronte a perforare anche i timpani più allenati!

Un inizio alla Daft Punk, con un mix di Predator per l’inizio con Something New: maschere metalliche in volto, su una pedana rialzata, interamente illuminata al centro del palco, per non eclissare la presenza di Tom e Georg; un po’ sacrificato forse solo Gustav, rilegato in un angolino del palco con la sua batteria. Palco che sicuramente Bill avrà trovato un po’ piccolo: sembrava un leone in gabbia. Carismatico e sicuro di sé, ha saputo mantenere il palco e il contatto col pubblico sempre. Un mini-show, insomma. Sicuramente dettagli da smussare e perfezionare, ma la presenza scenica c’è tutta.

Tanti cambi d’abito, bolle di sapone, ragazze sul palco per una canzone insieme, coriandoli: il tutto condito da una spettacolare coreografia di luci, che dall’inizio alla fine hanno accompagnato il quartetto durante ogni singolo brano, enfatizzando i brani più intimi ed eccitando il pubblico su quelli più energici. Tanti pezzi dell’oggi, pochi quelli del passato. Il cambio è stato netto e radicale e forse il passato, anche se riarrangiato, non trova più spazio nel presente.

Eh già, a malincuore parlo proprio di Monsoon, quella che il pubblico ha cantato all’unisono ancor prima che i cancelli fossero aperti, mentre superavano i controlli della sicurezza e quando impazienti erano in attesa dell’inizio del live. Ogni cantate/band ha un brano che più di un altro lo identifica. È Moonson la loro pietra miliare, inutile raccontarsi frottole. E cos’ha fatto il buon Bill?! Sul finale del concerto, l’ha riproposta, certo… ma in tedesco e mixata. Per carità, se si è cambiato rotta è logico e giusto aggiustare la mira anche sul passato, ma rinnegare, in un certo senso, al pubblico il brano che gli ha aperto le porte l’ho trovato poco carino e irrispettoso! Anche perché l’intero concerto è stato in inglese. Voleva essere questo un modo per omaggiare la sua terra d’origine? Allora perché non cantarla insieme al pubblico? Bill infatti l’ha solo accennata, ma il pubblico l’ha cantata. Forse è solo l’adolescente che è in me (facciamo finta che ero un’adolescente nel 2005!) che si è sentita ferita. Infatti io resto fedele alla versione originale che potete riascoltare qui.

Mai come ieri siamo stati testimoni di come il tempo possa cambiare, anzi mutare radicalmente il percorso artistico di una band. Se in meglio o in peggio, solo il gusto personale può dirlo e di certo non ci faremo noi giudici della serata di ieri, ma solo artefici di un racconto un po’ appassionato di un pezzettino di storia.

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