Foto di Tommaso Notarangelo
Roma Est, quartiere Portonaccio. Le luci tenui di Via Giuseppe Mirri sembrano sospese nel vuoto, come lampade galleggianti sopra un lago invisibile. È un giovedì d’autunno che sa di metallo e promesse di pioggia, e il Monk – rifugio di cemento e ferro, isola elettrica nel ventre della capitale – apre le sue porte a una delle formazioni più enigmatiche e inclassificabili del panorama britannico contemporaneo: i These New Puritans.
La sala si riempie lentamente. Un brusio misurato, quasi rispettoso, anticipa l’inizio. Non è il pubblico da pogo o da selfie sotto palco: qui ci si prepara come a un rito. Sul fondo, un proiettore diffonde un cono di luce lattiginosa che sembra tagliare la polvere in sospensione.
Quando i fratelli Jack e George Barnett salgono sul palco, l’atmosfera cambia consistenza. Nessun urlo, nessuna intro roboante. Solo un battito profondo, una vibrazione che risale dal pavimento. L’ingresso è un sussurro denso: piano, percussioni, qualche fiato sintetico che apre uno spazio, come una fenditura nell’aria.
È il modo più coerente per raccontare la loro parabola. Dopo un esordio – ‘Beat Pyramid’ – che li aveva collocati, forse troppo frettolosamente, nel magma del post-punk di ritorno di fine anni Dieci, i These New Puritans hanno scelto di disertare ogni etichetta. Dal secondo album in poi (‘Hidden’, 2010) hanno spogliato il suono da ogni riflesso rock, inseguendo qualcosa di più astratto, fisico, rituale. Le chitarre si sono dissolte in favore di un arsenale di percussioni, pianoforti, archi digitali e sintetizzatori che costruiscono architetture più che melodie.
Questa trasformazione, già evidente nei lavori successivi, diventa dal vivo una liturgia sonora: ogni colpo di timpano è un gesto scultoreo, ogni pausa è un atto di fede nel silenzio. Il concerto romano è la conferma di un’identità ormai emancipata da qualunque genealogia pop.
Le nuove composizioni, tratte da ‘Crooked Wing’, nascono da una materia che sembra allo stesso tempo terrena e ultraterrena. I riferimenti fluttuano nell’aria: i Coil, nei loro momenti più elegiaci; i Notwist, quando si dissolvono nell’astrazione di un’elettronica umana; Brendan Perry, per l’aura da mistico disincantato; e ancora i Talk Talk di ‘Spirit of Eden’ e ‘Laughing Stock’, con quella tensione fra purezza e collasso.
Ma si potrebbe evocare anche Robert Wyatt, nei toni caldi e improvvisamente infantili della voce di Jack; o i Sigur Rós più ombrosi, quando l’armonia si fa spettrale; e persino i Bark Psychosis, i Bathers, o i Blue Nile, nei passaggi più pianistici e notturni, dove la malinconia non è disperazione ma attesa, un sentimento sospeso.
Il Monk si presta piuttosto bene a questo tipo di apparizione: un locale che non finge glamour, ma restituisce una fisicità grezza, come una cassa toracica amplificata. Le luci – fredde, intermittenti – trasformano i corpi sul palco in sagome. Nessuna concessione allo spettacolo in senso stretto, solo intensità.
Ogni brano costruisce un equilibrio instabile tra potenza e fragilità. Le percussioni dominano: tamburi profondi, rullanti secchi, battiti che sembrano provenire da una tribù del futuro. Il pianoforte entra come un riflesso acquatico, mentre gli archi sintetici creano pareti che si aprono e si richiudono come diaframmi. È un linguaggio che vive di tensione, di gesti più che di temi.
La voce, centrata e inquieta, non cerca mai protagonismo. È uno strumento tra gli altri, un soffio che attraversa la materia sonora, che la incide e poi scompare. A tratti sembra un canto religioso deposto nel cemento, o portato in dote dal vento tra i rami.
In mezzo al set, una lunga sezione strumentale – un intreccio di ritmi sovrapposti, corde e risonanze – genera un effetto ipnotico. Alcuni spettatori chiudono gli occhi, come in meditazione. Altri fissano il palco senza muoversi, come se il minimo gesto potesse spezzare l’incantesimo.
Nessun brano viene introdotto. Nessuna parola di contatto. La comunicazione avviene altrove, nel modo in cui i suoni si frantumano, si inseguono, si dissolvono. È una forma di empatia muta, una condivisione dell’inquietudine.
Quando tutto si ferma, il silenzio è così denso da sembrare progettato. Poi un applauso cresce lentamente, come una marea. Nessuno urla, nessuno chiede un bis. Non ce n’è alcun bisogno. Il concerto si chiude come un respiro che si ritira.
Fuori, la città sembra mostrare un altro volto. Le insegne dei negozi spenti riflettono una luce che pare liquida. Ci si incammina verso l’uscita del Monk come chi rientra da un sogno, le parole restano sospese, come le note che ancora vibrano dentro le ossa.
I These New Puritans, oggi, sono una creatura che sfugge alle definizioni: troppo rigorosi per il pop, troppo emotivi per l’avanguardia, troppo fisici per l’ambient. Eppure, proprio in quella contraddizione si trova la loro forza. Sono artigiani del suono che costruiscono cattedrali effimere, spettri che respirano attraverso altoparlanti.
Il concerto capitolino non è stato soltanto una data di tour, ma una dimostrazione di vulnerabilità controllata, di eleganza austera. Un’elegia in cemento e nebbia, dove l’unica certezza è la trasformazione. E quando il silenzio finale avvolge la sala, l’impressione è che quella musica non sia finita: abbia solo cambiato stato, passando dall’aria al corpo.