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Umberto Maria Giardini al Wishlist

Roma, una serata qualunque che qualunque non è. È il Wishlist, piccolo cuore pulsante della scena alternativa capitolina, a ospitare Umberto Maria Giardini, nome di culto per chi frequenta da anni le zone più nobili della musica indipendente italiana. Ma quella andata in scena stavolta non è la consueta incarnazione del suo live, con la band al completo e i decibel che riempiono ogni angolo del locale. No, questa volta Giardini si presenta in una formula più raccolta, ma non per questo meno intensa: un duo essenziale, lui e il suo tastierista e produttore, a cesellare un set che profuma di rivelazione e riscoperta.

Prima di tutto, è giusto menzionare l’apertura affidata ad Atipico, giovane cantautore abruzzese che, accompagnato soltanto dalla propria chitarra acustica, offre al pubblico un assaggio del suo mondo sonoro: un indie-pop dal gusto marcatamente british, fatto di atmosfere leggere ma dal cuore malinconico. Il suo set, seppur breve, si ritaglia uno spazio discreto ma significativo, preparandoci senza clamore al momento che tutti attendono.

Quando Giardini sale sul palco, l’atmosfera cambia. Non c’è scenografia se non degli schermi neri con sopra impresse le sole lettere UMG (le sue iniziali, of course), non ci sono effetti speciali ma due musicisti, una tastiera e una chitarra che sa farsi fragile o abrasiva a seconda del bisogno. Ma la mancanza di fronzoli si trasforma rapidamente in punto di forza. È l’essenza che parla, e parla forte.

Il repertorio scelto per l’occasione pesca nel profondo del suo catalogo, ma lo fa con la grazia di chi non ha bisogno di accontentare nessuno, se non la propria urgenza espressiva. La scaletta è un viaggio nella memoria, tra strade conosciute e altri sentieri solitamente meno battuti della sua produzione, un invito alla contemplazione e all’ascolto vero, avvolgente, silenzioso.

A colpire è la presenza di brani che raramente trovano spazio nei suoi live più canonici, come ad esempio ‘Tu che domini’, riedizione in veste nuova di un brano risalente all’esperienza Selva Oscura, il progetto parallelo e più sperimentale che Giardini aveva messo in piedi anni fa. La resa, in questo contesto, è straniante e magnetica, complice un arrangiamento che mette in risalto le nuance oscure del pezzo senza appesantirle. È l’inizio di un percorso che alterna fragilità a tensione, poesia sussurrata a scosse elettriche.

Spiccano, tra gli altri, ‘A volte le cose vanno in una direzione diversa rispetto a quella che pensavi’ – brano dal titolo lungo quanto le sue suggestioni – e ‘Olimpo’, entrambe eseguite con una delicatezza disarmante, sospese tra lirismo e nervi scoperti. ‘Argo’ e ‘Mea Culpa’ rivelano invece l’anima più riflessiva e inquieta del cantautore marchigiano, in una veste sonora essenziale che amplifica le parole e ne rende più immediato il messaggio.

Quando arriva ‘Forma Mentis’, il tempo sembra fermarsi. È un momento di grazia, in cui la voce si fa graffio e carezza in uno spartito solo e la tastiera costruisce un paesaggio emotivo che avvolge il pubblico in un abbraccio quasi onirico, mentre Umberto scalfisce l’aria con riff ombrosi e arpeggi minacciosi. È qui che il set tocca uno dei suoi picchi emotivi, dimostrando quanto potente possa essere la sottrazione, se condotta con intelligenza e cuore.

Ma non finisce qui. Con gesto elegante, Giardini apre uno scrigno prezioso e tira fuori un vecchio amore: ‘E poi vienimi a dire che questo amore non è grande come il cielo sopra di noi’, ballata firmata Moltheni, che riemerge dal passato con una veste nuova, più scarna e altrettanto intensa: il brano, già intriso di malinconia nella versione originale, qui diventa una preghiera sommessa e si avvicina alla versione che ne diede su ‘Ingrediente Novus’, ovvero una dichiarazione d’amore che non chiede nulla in cambio.

A sorprendere è anche l’inclusione di un inedito, di cui non mi sembra sia stato annunciato il titolo, che anticipa il nuovo album che vedrà la luce in dicembre; un pezzo che conserva tutte le caratteristiche della scrittura di Giardini: testi evocativi, melodie sghembe ma memorabili, e quel modo unico di raccontare il disincanto senza mai diventare cinico. Se questo è l’assaggio, l’attesa per il nuovo lavoro si fa più impaziente che mai.

Il concerto si chiude con un bis che è quasi un rito: ‘Anni Luce’, rivisitata anch’essa in chiave intima ma non per questo meno vibrante. È una chiusura coerente e suggestiva, un addio temporaneo che sa di promessa. L’applauso finale è caloroso, ma non invasivo: è il tributo silenzioso di chi ha compreso di aver assistito a qualcosa di raro.

Quella di Umberto Maria Giardini al Wishlist non è stata soltanto una serata di musica, ma un’esperienza immersiva di demoni privati che diventano canti universali, con quella innata capacità di evocare un intero mondo, giocando con luci ed ombre, fragilità e potenza, ricordo e presente, senza mai perdere la bussola, senza mai cedere al facile effetto.

Un concerto che non ha avuto bisogno di clamore per lasciare il segno. Un viaggio tra pieghe dimenticate, frammenti di sé e nuove promesse. E soprattutto, la  conferma che anche con una chitarra, una tastiera e il silenzio giusto, si può raccontare l’infinito.

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