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Salmo Incendia Roma con un live in tre atti di pura follia

Testo di Fabio Babini
Foto di Sara Serra

Il palco del Salmo World Tour 2025 è calato sul palazzetto romano con la furia e la cura di un evento curato al millimetro, e l’appuntamento al Palazzo dello Sport, Roma il 21 ottobre ha messo in mostra non soltanto la potenza dell’artista sardo, ma la versatilità di un live suddiviso idealmente in tre atti, ciascuno con un’anima propria, e l’affiatamento di una band che ha saputo cavalcare un sound dal crossover rap-metal alle sonorità quasi punkabilly del suo ultimo disco ‘Ranch’.

Apertura: fuoco, chitarre e adrenalina

Il sipario si apre con la prima parte dello show, un’esplosione sonora in piena regola. Salmo e la sua band aprono con i brani più “fomentoni”, in cui il rap si fonde con chitarre taglienti, batteria martellante e un’impalcatura sonora che richiama apertamente il suono di band quali Korn e Rage Against the Machine: riff incalzanti, assalti sonori, fiamme e scenografia oscuramente epica. Le luci si fanno fiammiferi consumati – strobo, acciaio, fumo – e la band, composta da nomi come Marco Azara (chitarra e direzione musicale), Daniele Mungai (tastiere e chitarra),  (basso), Riccardo Puddu (tastiere e chitarra), Alessio Sanfilippo (batteria) e Carmine Iuvone (violoncello), dimostra una piena padronanza del palco e dei generi.

In questa fase, la scenografia cambia quasi ad ogni brano, come se ogni canzone fosse un micro-spettacolo a sé: dal muro di led che pulsa, agli schermi che proiettano simboli oscuri, fino a torce e colate di fuoco che fanno pensare più a un concerto dei KISS che a un live rap. Il pubblico – ordinato e selvaggio allo stesso tempo – è già al massimo: urla, poghi controllati, braccia alzate, e la potenza visiva e sonora si fondono in un’unica corrente.

Secondo atto: introspezione, catarsi e un flow denso e fluente

Dopo l’urto iniziale, lo show si trasforma. La seconda parte è più intima, ma tutt’altro che docile: la band rimane sul palco, ma l’atmosfera cambia registro, le luci si attenuano, la scenografia si fa più rarefatta e drammatica, e Salmo inizia a scendere nelle proprie viscere. I brani sono quelli che esplorano tematiche personali, momenti di fragilità, riflessioni sull’identità, sulla solitudine, sull’essere “altro”. Il suo flow rimane dirompente e mellifluo, tagliente e perfettamente a proprio agio anche in questi momenti meno heavy e più emotivi, dimostrando in pieno la sua consueta propensione alla versatilità espressiva.

È quasi un capovolgimento di paradigma: dalla rabbia esterna alla lotta interna, dalla massa al singolo. Le chitarre si attenuano, il violoncello crea uno sfondo emotivo, e le barre – non sempre autocommiserativi, ma comunque carichi di un’intenzione narrativa robusta – dialogano con il pubblico in un modo più diretto. La scenografia adotta sovente un immaginario horror, che richiama le collaborazioni passate con Noyz Narcos, visioni notturne, figure in controluce, corpi e ombre che si contorcono sulle pareti del palazzetto. Il fuoco resta, ma è usato come metafora, come bagliore minaccioso più che esplosione.

Finale: hip-hop puro, Machete Crew e ospiti

Come terzo atto lo spettacolo cambia ancora direzione, questa volta virando verso l’hip-hop nel senso più classico e contemporaneo del termine. Il palco si amplia, entra in scena un DJ, la crew della Machete Crew, e Salmo in versione MC puro, con basi più elettroniche, campionamenti, scratch e un approccio che spazia dai suoi esordi alle produzioni recentissime. Qui il pubblico è esploso: saltano i limiti, saltano le barriere tra artista e platea. E, come ciliegina sulla torta, ospiti sorpresa sul palco, tra cui – in un passaggio adrenalinico – Gemitaiz, che porta un ulteriore sussulto all’energia generale.

La scenografia torna potente: ledwalls che divengono i ghettoblaster giganti del terzo millennio, regia sapiente sui musicisti, ancora fiamme che salgono ai lati del palco, giochi di luce spettrale che avvolgono la platea. È un climax che arriva all’apice e si chiude con un’esplosione: cori, il pubblico in delirio, l’artista che saluta, ma con l’eco della sua voce che rimane, volteggia, si insinua.

La band e il contesto: un live ambizioso e poliedrico

La scelta di Salmo di affidarsi a una band robusta – e non solo a basi pre-registrate – è importante: l’affiatamento è evidente, la transizione tra stili fluida, e la resa dal vivo è totale. Questo permette di riprodurre con credibilità anche i brani più «metal» o crossover, ma senza perdere l’identità rap che contraddistingue l’artista di Olbia fin dagli inizi. Quel mix di energia, varietà, estetica e sincerità è il marchio del live.

Il tour nasce in un momento significativo: l’uscita dell’album ‘Ranch’ – pubblicato il 9 maggio 2025 – segna una nuova fase nella carriera di Salmo, una produzione che fonde rap, rock, introspezione e contaminazioni sonore. 

 I palasport italiani diventano la dimensione ideale per tradurre quell’anima in spettacolo puro: come segnalato dalla produzione del tour, ovvero «uno show imponente sul fronte sonoro e visivo, con scenografie curate nei minimi dettagli, un ritmo narrativo incalzante…». 

Scenografia e dettagli visivi: un viaggio visivo tra generi

L’impianto scenografico merita ancora una menzione particolare: cambia praticamente ad ogni brano, segna le tre parti dello show in modo piuttosto netto e fa da elemento unificante tra generi diversi. Nella prima parte dominano gli effetti a sorpresa, l’elemento fiammeggiante, gli schermi che lanciano simboli in un caleidoscopio dove tutto ha un suo posto preciso e nulla è lasciato al caso. Nella seconda parte, toni più scuri, luci più basse, focus sugli strumenti, momenti quasi acustici (anche se elettricamente amplificati) e un’estetica più “cinematografica”. Nella terza parte, visual e luci si fanno urban, LED ricercati, visual street-art, suoni elettronici, flow sparato, vibe hip-hop.

Inoltre, l’immaginario horror sottotraccia è declinato con gusto: figure che compaiono tra fumo e luci rosse, atmosfere post-industriali, silhouette che emergono dal buio. Questo elemento rende lo show non solo un concerto, ma un’esperienza: visiva, sonora, cerebrale. Il pubblico non ascolta solo musica, la vive.

L’evento al Palazzo dello Sport di Roma ha funzionato perché ha saputo unire diversi elementi: un artista che non si accontenta, una band compatta, una scenografia curata, un pubblico partecipe. Ma soprattutto – e qui è la chiave – la capacità di Salmo di cambiare registro senza perdere sé stesso. Dal metal all’hip-hop più hardcore, dall’aggressività all’intimismo, passando per il crossover e l’elettronica, lo show ha dimostrato che la sua musica non è monolitica, ma vibrante, policroma, sfaccettata.

La suddivisione in tre parti ha reso l’esperienza più chiara e coinvolgente: il pubblico è stato trascinato, calato, accompagnato in un percorso. Non solo “più brani uno dietro l’altro”, ma un racconto scenico. La band, essenziale in questo meccanismo, ha mostrato la propria affidabilità: sapersi muovere tra generi così differenti richiede tecnica, sensibilità, adattabilità. E Salmo – lato artista e performer – ha messo in campo carisma, presenza scenica, energia, ma anche sincerità. I brani dell’ultima parte, più orientati al rap puro con la Machete Crew, hanno confermato che la radice dell’artista è ben salda, anche quando si avventura in nuovi percorsi sonori.

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