C’è un’urgenza in PUNTO che non si può ignorare. È un disco che brucia, che graffia, che si muove tra la pancia e la testa senza chiedere il permesso. MaLaVoglia non ammicca, non si trucca per piacere: si mostra così com’è, con tutto il bagaglio di sarcasmo, fragilità, rabbia e poesia.
È cantautorato, sì, ma sporco, ibrido, contaminato. E finalmente.
È un album che suona come un live: vero, imperfetto, pieno di sudore e anima. E si sente.
La partenza è un’esplosione: Sei bravo ma… ti arriva addosso come una risata isterica. È punk nell’anima, anche se la veste è rock’n’roll: il ritmo è serrato, il testo è una lista di cliché che chiunque abbia provato a emergere nel mondo della musica conosce bene. È ironica, ma fa male.
Poi c’è Hamilton, che ti rimette in piedi dopo la caduta: “con te vado veloce, mi sembra di volare”, canta MaLaVoglia, e l’arrangiamento accompagna perfettamente la sensazione di slancio. Un pezzo che in un live potrebbe diventare un momento catartico.
Ma poi il disco ti frega: rallenta, scava, e ti piazza lì PUNTO, che ti costringe a guardarti dentro. Il testo è limpido, tagliente, doloroso. Una storia d’amore finita, certo, ma anche una riflessione sul passato che ci ostiniamo a trattenere. E la melodia ti rimane addosso come un ricordo.
Freddie è forse il pezzo più oscuro. Non solo per il tema, ma per il modo in cui è costruito: voce in primo piano, arrangiamento essenziale, tensione che cresce piano piano. È una confessione, un confronto, un’esplorazione di sé usando un’icona come specchio.
E poi Camoscio, che non si può dimenticare. Non c’è buonismo, non c’è giudizio. Solo uno sguardo profondo su una storia che ci interroga tutti. Musicalmente minimale, ma potentissima.
Johnny fa il miele invece è come se MaLaVoglia si togliesse la camicia sudata dopo il concerto e urlasse: “E ora basta!”. Due minuti di verità cruda, senza fronzoli, con un’ironia tagliente che ti fa ridere e pensare.
Con Allevati a terra e Non siamo tutti calciatori il disco prende strade più popolari, ma non meno intelligenti: il primo è un pezzo da urlare sotto palco, il secondo un inno per chi ha scelto la musica invece dello stipendio fisso. E Terra Rossa è il momento più nostalgico e autentico: un ritorno alle radici, che riesce a emozionare senza retorica.