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Nada alla Sala Petrassi: il nitrito di una voce indomita

Testo Fabio Babini
Foto Tommaso Notarangelo

A 72 anni compiuti, Nada Malanima continua a incarnare un’idea di autrice e interprete che non conosce compromessi né indulgenze nostalgiche. Chi si è recato alla Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica per assistere al suo live ha potuto toccare con mano la vitalità di un’artista che non solo resiste al tempo, ma lo affronta a viso aperto, scegliendo di rinnovarsi, di esplorare, di restare fedele a sé stessa proprio mentre cambia. Un paradosso solo apparente, che in Nada diventa manifestazione di coerenza artistica.

La serata, con buonissima affluenza ma senza registrare il tutto esaurito, si è articolata idealmente in due parti, segnando un arco narrativo che dal presente più vibrante ha saputo affondare le radici nel passato senza cedere alla facile retromania.

La prima parte della serata è stata dedicata interamente a ‘Nitrito, il nuovo lavoro discografico di Nada, ventunesimo della sua carriera, uscito a cinque anni di distanza da La paura va via da sé se i pensieri brillano. È un album di inediti che segna l’ennesimo scarto creativo della cantautrice livornese, sospeso tra rabbia lirica e ricerca sonora, tra sperimentazione poetica e impatto viscerale. Sul palco, accompagnata da una band solida e ben oliata — vera estensione sonora del suo corpo in continuo movimento — Nada ha restituito le canzoni di Nitrito con una carica emotiva contagiosa. Le chitarre graffiano, la batteria pulsa come un cuore impaziente, la voce, mai addomesticata, corre libera e istintiva, spingendosi verso territori a tratti impervi, ma sempre autentici.

L’influenza di John Parish — storico produttore e collaboratore di PJ Harvey — che ha lavorato con Nada anche in questo disco (come già nel precedente), è evidente nelle tessiture sonore, dove si alternano minimalismo acido e profondità armoniche. C’è un’eco di Cat Power nei momenti più intimi, una furia à la Patti Smith nei brani più tirati, ma la matrice resta saldamente personale. Anche laddove l’ombra lunga dei C.S.I. si fa percepire — nel fraseggio spezzato, quasi prosodico, di alcune liriche, nella ruvidità delle chitarre — Nada mantiene una propria indipendenza espressiva, un’identità che non si lascia appiattire dalle citazioni.

Dopo questa prima sezione elettrica, c’è stato un momento di sospensione, quasi una parentesi, uno spartiacque incantevole dove, accompagnata solo dalla chitarra acustica, Nada ha eseguito una versione intensa di ‘Una Pioggia Di Sale’, spogliata di ogni orpello, ridotta all’essenziale rispetto al tocco in stile Calexico della versione in studio: voce, respiro, carne. È stato uno dei picchi emotivi della serata, una finestra aperta su un modo di fare musica che privilegia l’urgenza espressiva all’effetto scenico.

Il secondo atto del concerto ha visto una sorta di attraversamento trasversale del repertorio della Cantautrice toscana. Dai brani più recenti, figli della sua fase indie-rock degli anni 2000, fino ad arrivare ai classici che l’hanno consacrata al grande pubblico: ‘Ma che freddo fa’ e ‘Amore disperato’. Ma attenzione: non si è trattato di una semplice riproposizione celebrativa. I vecchi successi sono stati rielaborati con arrangiamenti tesi, scarni, muscolari, che li hanno fatti suonare contemporanei, urgenti, sorprendenti. Nessun compiacimento, nessuna carezza al passato: Nada li ha restituiti come se li avesse scritti ieri, scolpiti nel presente, carichi di nuova elettricità.

Il pubblico, inizialmente più contenuto, è stato gradualmente conquistato da questa miscela di forza e sincerità. Nada non seduce: travolge. Non persuade: impone la propria visione, con una presenza scenica magnetica e un’energia che non mostra cedimenti. I suoi movimenti sul palco sono nervosi, rapidi, a tratti selvatici; la voce, invece, è una lama: non solo resiste al tempo, ma sembra addirittura guadagnare in profondità e consapevolezza.

In un panorama musicale spesso appiattito su modelli ripetuti e trend effimeri, Nada rappresenta un’anomalia felice, un’esplosione di autenticità che rifiuta le scorciatoie. La sua musica — oggi più che mai — è attraversata da un’urgenza poetica e politica che la rende necessaria. In ogni nota, in ogni pausa, si avverte l’eco di una storia artistica che non ha mai temuto il cambiamento, né l’errore. Una carriera vissuta come un percorso di conoscenza, un diario sonoro che raccoglie rabbie, dolori, speranze e ostinazioni.

Pertanto abbiamo assistito non solo ad un’ennesima conferma, ma altresì ad una dichiarazione d’intenti. Nada c’è, e ci sarà ancora. Con la sua voce che nitrisce, urla, accarezza e racconta. Con il suo corpo che danza e respira armonia, anche quando le visioni dei suoi brani si spostano in una zona grigia o del tutto nero pece. Con le sue canzoni che sono, da oltre cinquant’anni, lo specchio e l’anticipo di ciò che siamo stati, e di ciò che potremmo ancora essere.

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