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Matmos al Monk: tra scintille di metallo e allegorie digitali

Roma, in una sera di giugno che sa già d’estate piena, si è lasciata sorprendere da un rituale sonoro fuori dal tempo. Al Monk, luogo consacrato all’ibridazione di linguaggi musicali e sperimentazioni artistiche, è andata in scena una performance destinata a restare impressa nella memoria di chi c’era: i Matmos hanno offerto uno spettacolo che sfugge alle categorie, dissolvendo ogni confine tra musica, teatro, gioco e scienza del suono.

Non capita spesso di assistere a un concerto in quel locale romano con tutti posti a sedere, ma in questa occasione la scelta è apparsa perfettamente sensata. Più che una performance, quella del duo di Baltimora è stata una lezione aperta sull’arte del possibile, una dimostrazione che, anche dopo oltre vent’anni di carriera e una discografia che ha attraversato microsuoni, concetti astratti e tessiture ambientali, l’ironia e la voglia di stupire sono rimaste intatte.

M.C. Schmidt e Drew Daniel, le due menti (e mani) dietro al progetto, si sono presentati in scena con la complicità di chi si diverte davvero. Niente patinature da veterani, nessuna posa da compositori imbronciati. Sembravano due artigiani sorridenti, più interessati a solleticare la curiosità che ad affermare un’estetica, anche se, alla fine dei conti, proprio questo atteggiamento è diventato nel tempo la loro cifra inconfondibile.

Sul palco, un arsenale degno di un laboratorio alchemico: campane, ciotole, scodelle metalliche, strumenti-giocattolo e vari oggetti non identificati, appoggiati su tavoli e scaffali come strumenti chirurgici. Tutto è stato toccato, picchiettato, strofinato, fatto vibrare. Ogni singolo oggetto ha trovato posto in un impasto sonoro densissimo e meticoloso, dove il caos apparente si è rivelato parte di una partitura invisibile, forse scritta in una lingua che solo i Matmos conoscono.

Il risultato? Notevole, in una parola. Più precisamente, avvolgente, tridimensionale, pieno di pieghe e riflessi. A tratti minimale, altrove frenetico. Le trame elettroniche, sempre articolate, si sono alternate a episodi più fisici, dove il contatto diretto con la materia – il ferro, il vetro, la plastica – ha generato un senso di prossimità inedita. Non si trattava solo di ascoltare, ma di vedere e quasi toccare la genesi del sound che li ha resi celebri e celebrati. Un’esperienza tattile resa udibile, come se lo spettatore potesse entrare nei meccanismi stessi della produzione sonora, cogliendo ogni vibrazione alla sua origine.

L’interazione con il pubblico è stata parte integrante del rito. Tra un brano e l’altro, Schmidt e Daniel hanno scherzato con la platea, scambiando battute, ironizzando sulle tecnologie usate, sull’assurdità di certi suoni, e perfino sulla giocosa assurdità di alcuni titoli scelti per i loro pezzi. Non una distrazione, ma un’estensione naturale della loro poetica: la musica come gioco serio, come linguaggio intelligente e inclusivo, che non teme il sorriso ma anzi lo cerca, lo innesca, lo alimenta.

Il pubblico, assorto ma partecipe, ha accolto ogni variazione con attenzione quasi mistica. Seduti, immobili, ma con gli occhi spalancati. Una partecipazione diversa dal solito, più cerebrale forse, ma non meno intensa. Il Monk, nel suo abito inedito di sala da ascolto, ha saputo offrire lo spazio ideale per una performance che chiedeva silenzio, concentrazione e disponibilità al disorientamento.

Eppure, nonostante l’apparente complessità, il concerto non ha mai perso una certa leggerezza. Non c’era nulla di cerebrale fine a se stesso, nessuna compiaciuta ostentazione di virtuosismo sperimentale. Anzi, tutto il set è sembrato muoversi su una linea sottilissima tra rigore e delirio, tra metodo e caos, come se il duo stesso si stupisse continuamente di ciò che accadeva sotto le loro mani.

Chi conosce la discografia dei Matmos – da ‘A Chance to Cut Is a Chance to Cure’ fino a ‘Regards / Ukłony dla Bogusław Schaeffer’, passando per le incisioni costruite interamente con suoni del corpo umano o con materiali plastici – sa che ogni album è una specie di mondo parallelo, con regole proprie e intuizioni fulminanti. Ma vederli dal vivo significa entrare in quel mondo senza filtri, cogliendone non solo le strutture, ma soprattutto lo spirito: curioso, giocoso, affettuosamente anarchico.

Forse è proprio questa la loro forza: non si prendono mai troppo sul serio, ma prendono maledettamente sul serio ciò che fanno. Non c’è distanza tra loro e il pubblico, né tra l’idea e la sua realizzazione. Tutto è immediato, tutto è vivo. Anche un oggetto insignificante – una scatola di latta, una sveglia smontata – può diventare fonte di meraviglia, se trattato con lo sguardo giusto.

In un’epoca in cui la musica elettronica rischia spesso di trasformarsi in esercizio di stile o in sfoggio di algoritmi, i Matmos ricordano a tutti che l’invenzione è ancora possibile, ma solo se ci si diverte davvero a cercarla. Il loro concerto al Monk è stato un piccolo manifesto di questa visione: una celebrazione dell’assurdo, del bello inatteso, del suono come esperienza sensoriale totale.

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