In una serata romana di primavera già densa di promesse estive, il palco del Monk ha accolto una figura cardine del post-punk britannico: Hugh Cornwell, storico frontman e mente degli Stranglers, ha riportato le sue chitarre, la sua voce e la sua personalissima visione del rock a Roma, trascinando con sé un pubblico trasversale, affamato di ricordi e incuriosito dalle nuove strade sonore del veterano.
Come di consueto il power trio offre le dinamiche essenziali per la resa sonora dei suoi live solisti, formula cara a chi cerca l’impatto diretto e l’autenticità senza troppi fronzoli: batteria secca e puntuale, basso rotondo e nervoso, chitarra protagonista ma mai prevaricatrice. Un impianto sonoro asciutto, concreto, lontano dalle stratificazioni e dalle tastiere che furono marchio di fabbrica degli Stranglers, ma capace di reinterpretarne lo spirito con un piglio diverso, più rock, più terreno, quasi garage in certi momenti.
La scaletta si è mossa con fluidità tra presente e memoria. I pezzi più recenti, tratti dall’ultimo album ‘Moments of Madness’, sono apparsi vivi, taglienti, spesso ironici, come nel caso di ‘Too Much Trash’, o nei toni cupi e visionari di ‘Delightful Nightmare’; con ‘When I Was A Young Man’ ha portato un’ombra autobiografica senza perdere brillantezza, mentre ‘Mr. Leather’ ha strappato sorrisi grazie al suo sarcasmo tagliente. Brani come ‘Live It and Breathe It’ e la stessa ‘Moments of Madness’, che dà il titolo all’album, sono stati eseguiti con convinzione e un’energia che ha colpito anche chi era lì per nostalgia.
Ma sono stati ovviamente i momenti dedicati agli Stranglers a scatenare il pubblico, che ha ritrovato nella voce graffiante e inconfondibile di Cornwell un pezzo di storia. E non è stata una raccolta scontata di “hit”: certo, non sono mancate le iconiche Nice ‘n’ Sleazy, ‘Golden Brown’ o ‘Duchess’, ma a colpire è stata soprattutto la scelta di scavare nel repertorio con curiosità, portando alla luce gemme meno frequentate e offrendole in versioni riviste, secche e muscolari, private delle tastiere quasi psichedeliche di Dave Greenfield — la cui assenza aleggiava discreta, rispettata ma non ingombrante.
Così ‘Dead Loss Angeles’ ha assunto un tono ruvido e urbano, mentre ‘Nuclear Device (The Wizard of Aus)’ ha riportato in primo piano l’irriverenza e il gusto per il grottesco che hanno sempre caratterizzato l’epoca d’oro della band. ‘Tank’, con la sua marcia “militante”, è stata uno dei vertici del live, un concentrato di tensione punk ’77 e dinamite in tre minuti e mezzo. ‘Strange Little Girl’, invece, ha sorpreso per delicatezza, quasi a mostrare un’altra sfumatura della penna di Cornwell.
Le chitarre, spesso acidule e taglienti, hanno guidato l’intero live, con Cornwell in stato di grazia, preciso ma mai freddo. La sua voce, seppur segnata dal tempo, resta inconfondibile e piena di carattere. Ma il vero colpo di scena è stato l’approccio umano e comunicativo: lo si poteva immaginare più distante, forse un po’ disilluso. Invece, sul palco ha mostrato verve, leggerezza, autoironia, e tra i pezzi ha interagito spesso con il pubblico, scherzando, introducendo le canzoni con aneddoti o battute secche e intelligenti. Dopo il concerto, si è fermato a parlare con i fan, firmare dischi, farsi fotografare senza nessuna fretta o atteggiamento da divo.
Hugh Cornwell, oggi, non dà l’impressione di volersi adagiare sul glorioso passato. Certo, lo omaggia — e con classe — ma lo affianca con una produzione recente viva, personale, inquieta, ancora capace di sorprendere. Il pubblico del Monk ha assistito a qualcosa di più di un semplice revival: ha vissuto un racconto sonoro coerente, in cui ogni pezzo, vecchio o nuovo, trovava il suo posto in un discorso unico, articolato, testimone di una carriera coerente e mai doma.
Chi era lì non si è trovato di fronte a un monumento, ma a un artista ancora attivo, curioso, affilato, con la stessa voglia di esplorare e provocare che aveva ai tempi di ‘Rattus Norvegicus’. E questa, forse, è la vera rivoluzione: non fermarsi mai, nemmeno quando sarebbe facile. Nemmeno quando potresti accontentarti.