È un venerdì sera che sa di attesa e oscurità. Fuori, la città eterna si muove tra luci al neon e motorini frettolosi; dentro, nelle viscere vibranti dell’Auditorium Parco della Musica, un’energia sotterranea pulsa. La Sala Sinopoli è gremita: amanti del prog-rock, cinefili incalliti, nostalgici degli anni ’70, curiosi attratti da qualcosa che sa di culto. Tutti raccolti come in un rito laico per assistere al ritorno scenico di una delle più inquietanti leggende musicali italiane: i Goblin Legacy.
Un nome che pesa come un incubo
Goblin Legacy non è semplicemente un gruppo musicale. È un ponte tra passato e presente, una rinascita consapevole, che riprende il filo interrotto dei gloriosi Goblin, la band che, al fianco di Dario Argento, George Romero e altri maestri del cinema del terrore, ha forgiato l’estetica dell’horror sonoro europeo. Questa incarnazione “Legacy” è formata da alcuni degli artefici storici di quella rivoluzione sonora — Maurizio Guarini e Walter Martino — affiancati da musicisti di nuova generazione come Giacomo Anselmi alla chitarra e Roberto Fasciani al basso, quest’ultimo già noto per le sue collaborazioni con Fabio Frizzi. Il gruppo si presenta come custode dell’identità Goblin, ma con lo sguardo rivolto al futuro: non una cover band deluxe, ma una creatura viva, in continua trasformazione.
Una serata “da incubo”, nel senso migliore del termine
L’apertura del concerto non è stata affidata a un brano nostalgico, ma a una suite originale che rilegge e rielabora temi storici con un piglio contemporaneo, unendo passaggi sinfonici a inserti dark ambient, strutture progressive a momenti quasi industrial. I suoni analogici dei sintetizzatori vintage si sono fusi con trame moderne, creando un equilibrio ipnotico. La chitarra di Anselmi, tagliente ma mai invadente, dialogava con i tappeti sonori stratificati di Guarini, mentre la sezione ritmica, con Martino alla batteria e Fasciani al basso, pulsava con precisione chirurgica e anima sanguigna.
Sul palco, la scenografia era essenziale ma potentemente evocativa: luci fredde, tagli di rosso violento, proiezioni di immagini oniriche — e poi i film. Sospiri, sguardi, lame, sangue. Il cinema di Argento, Romero, Cozzi, Joe D’Amato si è fuso con la musica in una sinestesia ipnotica.
I classici e la reinvenzione
Il pubblico ha accolto con entusiasmo le grandi colonne sonore. ‘Profondo Rosso’, forse la più iconica, è stata reinterpretata in una versione lunga e articolata, con aperture operistiche e addirittura un growl death metal da parte di due graditi ospiti sul palco. Non una semplice esecuzione fedele all’originale, ma un atto di riscrittura rispettoso, dove ogni musicista ha trovato uno spazio per reinventare.
Con ‘Suspiria’, il tono è cambiato: etereo, esoterico, carico di presagi. L’arpeggio iniziale, sorretto da effetti sonori inquietanti, ha introdotto una lunga sequenza ambientale che è sfociata nella melodia principale. Il flauto — vero protagonista inaspettato della serata — ha dato un tocco rituale, quasi liturgico, trasformando la sala in un altare sonoro.
Un pubblico in trance
L’atmosfera era elettrica. Ogni intro riconoscibile scatenava applausi spontanei; ogni pausa, silenzio assoluto. Gli spettatori sembravano non solo ascoltare, ma “assorbire” la musica, come se ogni nota risvegliasse un ricordo condiviso. La connessione tra palco e platea era totale, un filo invisibile che legava i suoni all’emozione collettiva.
Tra i momenti più coinvolgenti, una potente esecuzione di ‘Roller’, il brano strumentale tratto dall’omonimo album del 1976. La precisione millimetrica, unita a un entusiasmo palpabile, ha reso questa versione una delle più apprezzate della serata. Non da meno “Non ho sonno”, tratto dal film omonimo di Argento del 2001, che ha confermato come anche le composizioni più recenti abbiano una forza drammatica degna dei grandi classici. Non sono mancate altresì tracce provenienti da colonne sonore di film meno noti al grande pubblico ma di culto assoluto per gli appassonati di cinema di genere, come ad esempio ‘Contamination’ e ‘Buio Omega’, con tanto di immagini riproposte alle spalle dei musicisti durante le esecuzioni.
La Sala Sinopoli come cassa armonica dell’incubo
La Sala Sinopoli, con la sua acustica perfetta e la sua architettura accogliente ma solenne, ha amplificato ogni dettaglio. Ogni rintocco di campana sintetica, ogni nota pizzicata sulle corde, ogni riverbero era limpido e penetrante. Le proiezioni, le luci, il design del suono: tutto ha contribuito a creare un’esperienza totale. Un vero e proprio teatro del suono dove la musica dei Goblin Legacy ha trovato la sua dimensione più compiuta.
L’eredità che non muore
Quello che i Goblin Legacy portano in scena è molto più di un repertorio: è una dichiarazione di intenti. Dimostrano che l’eredità dei Goblin non è fatta solo di nostalgia, ma di una ricerca costante, un’esplorazione del suono che riesce ancora a sorprendere, coinvolgere, inquietare. Non è revival, ma rinascita, come testimoniato anche dalla scelta di mettere in scaletta alcuni brani dai loro album più recenti (uscirti a nome dei Goblin Rebirth), non legati strettamente a film specifici ma semmai portatrici di visioni cinematiche per film immaginari.
E se il passato è glorioso, è anche grazie a questa capacità di trasformarsi, di mutare pelle senza perdere l’anima. I Goblin Legacy non si limitano a conservare una memoria: la reinterpretano, la contaminano, la rilanciano verso orizzonti sonori che parlano anche alle nuove generazioni.
Epilogo (in minore)
Quando le ultime note sono svanite, e l’eco si è spenta tra le curve della sala, il pubblico è rimasto in silenzio. Un attimo sospeso, come se nessuno volesse rompere l’incantesimo. Poi, l’applauso. Lungo, intenso, vibrante. Più che un ringraziamento, una consacrazione.
Roma, là fuori, continuava a scorrere. Ma chi era dentro quella sala, lo sa: almeno per una notte, ha camminato sul bordo del sogno e dell’incubo, guidato da una musica che, ancora oggi, sa dare forma al mistero.