Foto di Chiara Lucarelli
Lunedì 30 giugno 2025, la Cavea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma ha ospitato un evento che ha unito passato e futuro, nostalgia e innovazione: il concerto dei Molchat Doma, il trio bielorusso che ha saputo trasformare la malinconia in musica universale, un viaggio emozionale tra synth, chitarre riverberate e una voce che ha trovato nuova forza e profondità.
Un palco che racconta storie
La Cavea, con la sua architettura aperta e scenografica, ha offerto il contesto ideale per il sound glaciale e ipnotico dei Molchat Doma. La band, composta da Egor Shkutko (voce), Roman Komogortsev (chitarra, synth) e Pavel Kozlov (basso, synth), ha presentato il suo quarto album, ‘Belaya Polosa’, un lavoro che segna un’evoluzione nel loro stile, mantenendo le atmosfere darkwave e synth-pop che li contraddistinguono e arricchendole con influenze a tratti più contemporanee, ma con alcune sfumature che rimandano senz’altro alla loro tradizione.
Pur mantenendo un alone di riserbo – poche parole tra i brani, quasi un sussurro emotivo – il trio ha instaurato un legame con la platea andando oltre l’armonia linguistica: Egor ha ringraziato tra un brano e l’altro divincolandosi tra poche parole in inglese e un saluto in lingua madre, salutando con un perentorio “We are Molchat Doma from Minsk” come solenne introduzione. Roman Komogortsev e Pavel Kozlov, nel mentre, hanno riprodotto con precisione chirurgica le atmosfere retro-futuristiche che hanno reso iconico il loro sound.
Uno degli aspetti più sorprendenti del live è stata l’evoluzione vocale di Egor Shkutko: la sua timbrica, un tempo caratterizzata da un tono freddo e distante, ha acquisito nuova profondità e colori timbrici. Il cantante ha mostrato una maggiore sicurezza e presenza scenica, alternando momenti di intensa introspezione a esplosioni di energia. La sua performance ha ricordato quella di Dave Gahan dei Depeche Mode per l’intensità emotiva e quella di Alexander Veljanov dei Deine Lakaien per la teatralità e la presenza scenica.
Un viaggio attraverso la musica
La scaletta del concerto ha spaziato tra i brani più iconici della band e le nuove composizioni di ‘Belaya Polosa’. Brani come Ty Zhe Ne Znaesh’ Kto Ya’ e ‘Kolesom’ hanno mostrato l’evoluzione del sound del gruppo, con influenze più moderne e una produzione più raffinata. Altri pezzi, come ‘Son’ e la stessa title-track hanno richiamato soluzioni electro minimali in stile Depeche Mode e le atmosfere dei Cure, combinando chitarre riverberate alla Robert Smith e sintetizzatori eterei per evocare un senso di transizione tra passato e futuro, riecheggiando la languida oscurità di casa Factory che fu di band quali Minny Pops, The Wake e Crispy Ambulance.
L’atmosfera della serata è stata resa ancora più suggestiva dalla scenografia minimalista e dall’uso sapiente delle luci. I giochi di luce, che alternavano tonalità fredde e calde, hanno creato un ambiente immersivo che ha accompagnato il pubblico in un viaggio sensoriale. La band, pur mantenendo un certo distacco emotivo, è riuscita a stabilire una connessione profonda con il pubblico, grazie alla forza della propria musica e alla sincerità della sua espressione artistica.
Non sono mancati i brani divenuti oramai dei classici, come i quattro bis tutti estratti dal penultimo album ‘Ėtaži’, tra cui la celebre ‘Sudno (Boris Ryzhy)’, che ha chiuso la serata con un’esplosione di energia danzante. Con una scaletta fluida, hanno costruito un crescendo emozionale che ha coinvolto pubblico e band in un cerchio condiviso di fascino ipnotico.
Il live dei Molchat Doma alla Cavea è stata un’esperienza a suo modo davvero unica, che ha confermato la capacità della band di evolversi senza perdere la propria identità. Come detto, la voce di Egor Shkutko, ora più ricca e dinamica, ha aggiunto una nuova dimensione al songwriting della band di Minsk, rendendo l’esibizione ancora più memorabile. E ancora una volta hanno dimostrato di essere ben più di una curiosità emersa casualmente per un video su Tik Tok, ma anzi, forse quel “casus” ha contribuito ad avvicinare a certe sonorità un pubblico (molto) giovane, aprendo la loro mente verso band e generi che, con tutta probabilità, non avrebbero mai incontrato in vita loro.