Foto: Sara Serra
Ci sono concerti che si assomigliano tutti, con la scaletta pronta, l’impianto emotivo già previsto, il pubblico che applaude nei punti giusti come seguendo un copione. Poi ci sono quei live in cui succede qualcos’altro. Qualcosa che ha a che fare non con la perfezione, ma con la verità. Il live di Alan Sparhawk al Largo Venue di Roma è stato uno di questi momenti rari. Un’esperienza che ha oscillato tra opposti apparenti — elettronica caotica e intimità struggente, disorientamento e commozione — mantenendo (anche se forse tramite un dualismo non del tutto coerente) una direzione emotiva precisa, come il volo spezzato ma ancora dritto di un uccello in tempesta.
L’ingresso nel locale, fin dai primi minuti, lascia una sensazione insolita. Chi si aspettava una folla consistente, memore dell’importanza storica dei Low e della figura di culto che Sparhawk rappresenta nella musica indipendente americana, rimane spiazzato. La sala è tutt’altro che gremita. Ma se questo poteva apparire come un ostacolo, è invece diventato — paradossalmente — il punto di forza di questo live sui generis. Il Largo Venue si è trasformato in uno spazio quasi domestico, in cui la distanza tra palco e platea si è accorciata non solo fisicamente, ma emotivamente. Un concerto “per pochi”, sì, ma capace di entrare con forza dentro ognuno dei presenti.
Alan Sparhawk si presenta in trio: con lui un bassista dalle movenze fluide e un batterista preciso, nervoso al punto giusto. Ma fin da subito è chiaro che questa non è una serata come le altre. Il set si apre con una sequenza tratta da ‘White Roses, My God’, l’album più inatteso — e per certi versi incompreso — della sua carriera. Un disco nato nel pieno della tempesta interiore seguita alla morte di Mimi Parker, la batterista e cofondatrice dei Low, ma soprattutto sua moglie e compagna di una vita. Eppure, al posto del dolore luttuoso e della contemplazione funerea, Sparhawk ha risposto con un’esplosione di suoni scomposti, ritmi spigolosi, melodie tagliate a metà e voci trattate fino a diventare maschere digitali.
Dal vivo, questo repertorio suona come una sfida lanciata ai presenti. Sparhawk canta come se fosse un altro, o forse più versioni di se stesso insieme: filtra la voce con effetti che ricordano l’autotune, ma lo usa in modo straniante, quasi ironico, come se stesse interpretando una caricatura della popstar contemporanea. Si muove on stage con una teatralità nuova, mai vista in lui, occupando lo spazio con sicurezza e gioco. I suoni sono elettronici, ma imperfetti. La struttura dei brani è fratturata, spezzata da glitch ritmici, da echi hip-hop alieni e da atmosfere trap diluite. È come se ci trovassimo nel mezzo di un collage postmoderno che usa i codici del pop contemporaneo per raccontare qualcosa che il pop, da solo, non sa più dire.
E il pubblico? All’inizio guarda, ascolta, osserva. Poi, lentamente, si lascia coinvolgere. Capisce che non è una provocazione fine a se stessa, ma una dichiarazione di esistenza. Un modo per dire: “Sono ancora qui, anche se tutto è cambiato”. E allora ogni beat spigoloso, ogni effetto vocale straniante, ogni distorsione elettronica diventa parte di un linguaggio personale, di una grammatica interiore che cerca nuovi suoni per raccontare il dolore senza caderci dentro.
Ma l’evento è solo a metà.
Quasi senza parole, Sparhawk opera una transizione. Prende la chitarra, abbassa le luci, cambia anche la postura del corpo. La seconda parte del concerto è un’altra storia, ma non è una smentita della prima: è il suo completamento. Se la prima metà è stato il caos elaborato del lutto, la seconda è la pace inquieta della memoria. I brani diventano più lunghi, sospesi. La voce torna al centro, limpida, intensa. La chitarra si muove tra l’arpeggio acustico e le distorsioni lente, psichedeliche, che evocano i paesaggi infiniti del rock americano più interiore.
Qui Sparhawk è di nuovo il cantautore che conosciamo, ma arricchito da una consapevolezza nuova. Le canzoni in anteprima dal suo prossimo disco — scritto insieme ai Trampled by Turtles — sono piccole gemme folk-rock, capaci di parlare con un linguaggio antico senza risultare mai nostalgiche. Il suono è caldo, essenziale, ma sempre attraversato da tensioni emotive forti. È un canto che non consola, ma accompagna.
A rompere l’andamento più raccolto arrivano due colpi di scena: ‘JCMF’ e ‘Poor Man’s Daughter’, tratti dal repertorio dei Retribution Gospel Choir, il progetto più abrasivo e hard-psych di Sparhawk. Sono minuti di esplosioni travolgenti, in cui il trio suona come un’onda di lava. La chitarra si infiamma, il basso pulsa come un motore acceso da ore, la batteria si fa tribale, martellante. L’audience risponde con sorpresa e poi con entusiasmo genuino. È il punto più alto della serata, l’urlo liberatorio che arriva dopo un’ora di catarsi silenziosa.
E proprio quando ci si aspetterebbe la chiusura, Sparhawk sorprende di nuovo. Inserisce un brano dal progetto Derecho Rhythm Section, dove le sonorità funk-rock e groovose si intrecciano a una vena sperimentale che non perde mai la coerenza. È come se il musicista di Duluth volesse ricordare che può essere molte cose insieme, senza dover rinunciare a nessuna delle sue anime.
E infine, i bis. Due canzoni dei Low, che più che un omaggio sembrano una preghiera laica: ‘Walk Into The Sea’ e ‘Days Like These’. Sono momenti di una delicatezza sorprendente. Non è nostalgia, non è malinconia, è qualcosa di più profondo: è la riconciliazione con ciò che è stato. È il saluto definitivo a un’epoca, a una persona, a un suono. Ma anche un modo per dire che quella storia vive ancora, in altre forme, dentro nuove canzoni, dentro nuove voci.
Quando le luci si riaccendono, si resta fermi qualche secondo. Non per caso. C’è qualcosa da assorbire, da metabolizzare. Si esce in silenzio, non perché si è delusi, ma perché si è stati attraversati. Alan Sparhawk non ha semplicemente suonato: ha portato la sua energia e la sua anima, nella sua forma più fragile e al contempo più forte, sul palco capitolino. Ha costruito un concerto che è stato una traversata. E chi era presente, sa di aver partecipato a qualcosa che, pur nella sua palese incoerenza della duplice proposta, non dimenticherà facilmente.