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Intervista a Giuseppe Cucè

Non c’è trucco, non c’è posa. “21 grammi” è il disco con cui Giuseppe Cucè mette in scena il suo lato più umano, vulnerabile, nudo. 

Si parte forte con “È tutto così vero”, un racconto sincero di pelle, odori, errori. “Ventuno” è il cuore pulsante del lavoro, dove si parla di anima e carne senza spiritualismi forzati. “Dimmi cosa vuoi” e “Fragile equilibrio” mantengono alta l’intensità, tra l’urgenza dell’amore e la consapevolezza delle crepe interiori. Poi arriva “La mia dea” a ricordarci che le radici non mentono mai. 

Sul lato B si respira gelo e disillusione in “Cuore d’inverno”, sarcasmo esistenziale nel brano “Tutto quello che vuoi” e un amore in stand-by in “Una notte infinita”. 

Chiude “Di estate non si muore”, una fotografia perfetta della Sicilia che resta immobile sotto il sole. È un disco che non cerca di piacere: preferisce farsi sentire.

“È tutto così vero” apre l’album in modo molto diretto e viscerale. Quanto è importante per te parlare di imperfezione?

È fondamentale. L’imperfezione è la sola verità che ci accomuna. “È tutto così vero” nasce proprio da lì: da un’urgenza di mostrarsi senza maschere, di raccontare l’amore quando è crudo, disordinato, pieno di ombre ma anche di carne viva. Viviamo in una società ossessionata dal filtro, dalla patina. Io volevo strappare via tutto e restare nudo. Perché solo nell’imperfezione ci si riconosce davvero.

Cosa ha significato per te scrivere “La mia Dea” come omaggio alla figura materna e come sei riuscito a trasformare questo amore in un brano così intimo e profondo?

È stato un atto necessario, un gesto d’amore scritto con la voce abbassata. “La mia Dea” è un omaggio a mia madre, ma anche a tutte le presenze che ci hanno cresciuti con silenzio e forza. Non volevo un ritratto idealizzato, ma un canto dolce e reale, che sapesse tenere insieme la luce e le ombre. Ho cercato le parole come si cercano i ricordi: tra le pieghe della memoria, nei dettagli che restano quando tutto il resto sbiadisce. È forse il brano più intimo del disco, perché nasce dal luogo dove le parole fanno più fatica ad uscire.

La fragilità sembra essere il filo conduttore del disco: è stata una scelta consapevole o un’urgenza?

È stata un’urgenza. Non mi sono seduto a tavolino per decidere un tema. È stato il disco a mostrarmi il suo cuore, e quel cuore era fragile. Viviamo in un tempo che esalta la forza come controllo, successo, potere. Io volevo ribaltare lo sguardo: mostrare che nella vulnerabilità c’è una forma più vera di resistenza. La fragilità è la pelle che non abbiamo ancora indurito. E io volevo cantare da lì, da quella pelle esposta.

C’è stato un momento in cui ti sei sentito particolarmente esposto durante la scrittura o la registrazione?

Sì, più di uno. Ma forse il più forte è arrivato registrando Ventuno. Era come se stessi leggendo una lettera a me stesso, davanti a qualcuno che poteva vedere ogni cosa. Non c’era modo di fingere, non potevo proteggermi con lo stile o con l’arrangiamento. Solo voce e verità. In quel momento ho capito che stavo lasciando qualcosa di mio per sempre, senza possibilità di tornare indietro. E mi ha fatto tremare.

Qual è per te la forma più autentica di forza?

La forza autentica è quella che sa piangere. Quella che non ha paura di crollare, di mostrarsi fragile, di dire “non ce la faccio” e poi riprovarci. È la forza di chi non ha bisogno di sembrare invincibile, ma sceglie ogni giorno di restare umano. È nella cura, nell’ascolto, nella capacità di portare il dolore senza farne un’arma. È la forza che non schiaccia, ma accoglie. E che spesso passa inosservata, ma regge il mondo.

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