Quasi vent’anni sono passati dalla prima esibizione della band scozzese nella Capitale: era il marzo del 1998 al Frontiera, qualcuno ancora se lo ricorda? Già, quell’immenso capannone adibito a locale che si stagliava in mezzo al nulla sulla via Aurelia, dove gli allora giovanissimi Mogwai proposero ad un pubblico sparuto brani dall’esordio epocale Young Team e dai primi singoli, al tempo raccolti sull’altrettanto fondamentale raccolta Ten Rapid.

Dall’epoca tantissima acqua è passata sotto i ponti, tra una discografia caratterizzata da una costante (alta) qualità, remix, colonne sonore (per la splendida serie TV francese Les Revenants), per non parlare di un evento celebre come l’All Tomorrow’s Parties, di cui curarono la prima storica edizione nel 2000. La Città Eterna li accoglie oggi in modo trionfante, con una folla che riempie letteralmente l’Atlantico Live sviscerando la medesima enfasi con cui si attende solitamente delle rockstar conclamate.

I Mogwai, dal canto loro, rispondono con una compostezza formale, con timidi ma sinceri saluti tra un brano e l’altro di una scaletta che spazia tra doveri di promozione e un repertorio del passato denso di classici davvero senza tempo. Fluttuano, tra arpeggi liquidi ed esplosioni fragorose, gli archetipi primordiali del post-rock, con l’abilità di chi non ha mai ceduto il passo ad un dogma preconfezionato, qualcosa che sapesse di fatuo o sterile esercizio di stile. Certo, i brani del nuovissimo Every Country’s Sun anche dal vivo offrono il fianco ad una sorta di visione retrospettiva ad ampio raggio sulla loro carriera, come a tratteggiare le varie sfaccettature sviluppate attraverso i loro album; con l’aggiunta di un ingrediente francamente evitabile come il vocoder, oggi tornato inspiegabilmente di gran moda ma che preferiremmo ricordare come orpello di un piacevole passato remoto (come su Pater Noster di John Foxx o Livin’ On A Prayer dei Bon Jovi, tanto per capirci).

L’acustica non proprio delle migliori, specie durante i primi pezzi, e a farne le spese sono le frequenze basse, che tendono ad essere fagocitate quando il suono si fa pieno e saturo di distorsione elettrificata; la situazione migliora lievemente nella seconda metà del live, mentre 2 Rights Make 1 Wrong riceve una pacata ovazione e ci porta con la memoria così indietro nel tempo da dimenticarci il resto, mentre Auto Rock (da un altro caposaldo come Mr. Beast) svela una sottile ma calzante matrice kraut giusto a due passi dai Tangerine Dream. L’encore prima del sipario finale ci porta alla title-track del nuovo album, tra saliscendi che provocano un piacevole deja-vu, prima del sublime crescendo del loro maelstrom autografo per antonomasia: Mogwai Fear Satan, al solito in sublime, costante equilibrio tra soave stasi crepuscolare ed esplosioni noise ultra-psichedeliche che pestano sullo stomaco ed uncinano l’anima.

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